martedì 18 marzo 2008

Un Paese senza Giustizia è in balia del più forte -chiunque esso sia..

Genova, G8, Luglio 2001

Il G8 di Genova è stata la più grave violazione dei diritti umani in Europa dalla seconda guerra mondiale”.
Amnesty International

Nel nostro paese sulle violazioni dei diritti umani si indaga con difficoltà e le condanne sono rare. Non andare a fondo significa rinunciare ad un compito importante. La lentezza dei procedimenti su Genova gioca ad una rimozione via via più profonda“.

Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia.

Genova non è il nostro passato ma il presente. Avevamo chiesto una commissione indipendente dalla politica che non doveva emettere condanne ma dare indicazioni su quel sistema che aveva permesso che ci fosse Genova e prima Napoli, e dare anche indicazioni sulle leggi, non abbiamo ad esempio una legge sul reato di tortura, né una legge che istituisca un meccanismo di identificazione per i rappresentanti delle forze dell’ordine con lo scopo di impedire che un reato cada nell’impunità perché non si è individuato”.
Estratto dal rapporto, CONCERNS IN EUROPE, gennaio 2002, di Amnesty International http://www.amnesty.it/primopiano/g8




Nella caserma di Bolzaneto furono trascinati 300 manifestanti e qui furono torturati. Il capo di più alto grado a Bolzaneto era il n. 2 della Digos, Alessandro Perugini, vicecapo della Digos genovese, il quale era nella caserma ma dichiarò: “Nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto non vi fu alcuna violenza. I dimostranti si sono fatti male da soli”.
Ho visto all’interno di ciascuna cella una decina di persone, con il volto e le mani rivolte verso il muro. Non ricordo di aver visto donne. Non mi sono chiesto il perché stessero in quella posizione, non mi ha colpito quella circostanza”. Ricorda però che “un collega alzò la voce” e che ‘altri spruzzarono gas urticante nelle celle’. I detenuti urlavano ma Perugini “non sentì niente”.
Perugini in maglietta e jeans fu fotografato mentre sferrava un calcio a un ragazzino di 15 anni, disarmato e a terra.


dal blog : http://toghe.blogspot.com

Le violenze impunite del lager di Bolzaneto

di Giuseppe D’Avanzo

da La Repubblica del 17 marzo 2008



C’era anche un carabiniere “buono”, quel giorno. Molti “prigionieri” lo ricordano.

“Giovanissimo”. Più o meno ventenne, forse “di leva”. Altri l’hanno in mente con qualche anno in più.

In tre giorni di “sospensione dei diritti umani”, ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell’amministrazione penitenziaria.

Appena poteva, il carabiniere “buono” diceva ai “prigionieri” di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell’acqua, se ne aveva una a disposizione.

Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 “fermati” e 252 arrestati.

Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista ...).

I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che “soltanto un criterio prudenziale” impedisce di parlare di tortura. Certo, “alla tortura si è andato molto vicini”, ma l’accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo – né avvertito il dovere in venti anni – di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d’uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata.

Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna.

Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa “degli altri”, di quelli che pensiamo essere “peggio di noi”.

Quel “buco” ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere.

Che – per tre giorni – ci è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta1225 – c’era scritto: Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese.

Nella nostra Costituzione, 1947, all’articolo 13 si legge: La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà.

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un’accorta gestione, si sono voluti cancellare i “luoghi della vergogna”, modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l’idea di farne un “Centro della Memoria” a ricordo delle vittime dei soprusi.

C’è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i “carcerieri” accompagnavano l’arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come “Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!”, cori di “Benvenuti ad Auschwitz”.

Dov’era il famigerato “ufficio matricole” c’è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come “Morte agli ebrei!”, ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l’ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l’ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno.

Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: “Allora, non li vuoi vedere tanto presto ...”.

A un’altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli.

Anche H. T. chiede l’avvocato. Minacciano di “tagliarle la gola”.

M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: “Vengo a trovarti, sai”.

Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere.

In un angolo si è, prima, perquisiti – gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra – e denudati dopo.

Nudi, si è costretti a fare delle flessioni “per accertare la presenza di oggetti nelle cavità”.

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i “prigionieri” di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono – 55 “fermati”, 252 “arrestati” – sono approssimativi.

Meno imprecisi i “tempi di permanenza nella struttura”.

Dodici ore in media per chi ha avuto la “fortuna” di entrarvi il venerdì.

Sabato la prigionia “media” – prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera – è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all’ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le “posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa”.

La “posizione del cigno” – in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro – è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell’attesa di poter entrare “alla matricola”.

Superati gli scalini dell’atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della “posizione” peggiori, se possibile.

In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella “posizione della ballerina”, in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro.

Tutti sono insultati: alle donne gridato “entro stasera vi scoperemo tutte”; agli uomini, “sei un gay o un comunista?”

Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: “viva il duce”, “viva la polizia penitenziaria”.

C’è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un “trauma testicolare”.

C’è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella “posizione della ballerina”. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano “di rompergli anche l’altro piede”. Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. “Comunista di merda”.

C’è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di “non picchiarlo sulla gamba buona”.

I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: “Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?”.

S. D. lo percuotono “con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi”.

A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: “Troia, devi fare pompini a tutti”, “Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte”.

S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano.

J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e “a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania”.

J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua “posizione vessatoria di transito”, con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena.

Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C’è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l’altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti.

Ricorda il pubblico ministero: “I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone”.

Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni.

P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: “E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci”. Poi un’agente donna gli si avvicina e gli dice: “È carino però, me lo farei”.

Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte.

Il peggio avviene nell’unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore.

La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all’accompagnatore. Che sono spesso più d’uno e ne approfittano per “divertirsi” un po’.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate.

Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata.

M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, “arrangiandosi così”.

A. K. ha una mascella rotta. L’accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra.

E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto “se è incinta”. Nel bagno, la insultano (“troia”, “puttana”), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: “Che bel culo che hai”, “Ti piace il manganello”.

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché “puzzano” dinanzi a medici che non muovono un’obiezione.

Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato “strattonato e spinto”.

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con “questo è pronto per la gabbia”.

Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di “trofei” con gli oggetti strappati ai “prigionieri”: monili, anelli, orecchini, “indumenti particolari”.

È il medico che deve curare L. K.. A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un’iniezione. Chiede: “Che cos’è?”. Il medico risponde: “Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!”.

G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All’arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c’è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due “fino all’osso”. G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede “qualcosa”. Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, “i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria”.

Non c’è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell’estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato.

I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti.


È un’osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che – ha ragione Marco Revelli a stupirsene – l’indifferenza dell’opinione pubblica, l’apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare – le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato – che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la “dimensione dell’umano” di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati?

Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre “con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza”?

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Questo è un paese senza Libertà, senza Giustizia. Un paese dove chi ritiene di avere anche un minimo di potere, lo usa per i propri interessi. Ma nelle dichiarazioni ufficiali e nel formalismo ipocrita e vuoto di ogni giorno, parole come Libertà, Giustizia, Democrazia,.. sono ululate e declinate in ogni salsa..
C'è sempre un tornaconto che va difeso. Costi quello che costi..

E al diavolo anche i diritti umani. Tanto.. sono sempre quelli degli "altri", i diritti che vengono conculcati..


Saluti
Fabrizio Frosini

Vday